Monday, November 27, 2006

La sindrome di Natascha

Due casi di cronaca recente mi hanno colpito in maniera particolare, più di tanti fatti anche tragici e di forte impatto. Forse perché mi è sembrato di cogliere qualcosa, un filo rosso che li rende molto simili. Parlo della liberazione di Natascha Kampusch e di quella di Augusto De Megni, vincitore del grande fratello 6.



La vicenda di De Megni è arcinota e teleabusata: rapito dall’Anonima Sequestri quando aveva 10 anni, fu liberato dopo 4 mesi. Chiese poi clemenza per Antonio Staffa, il «carceriere buono». «È stato gentile con me - disse il bambino agli inquirenti - una notte avevo freddo, e lui mi ha dato la sua coperta». Paradossalmente è entrato nella casa del grande fratello perché «Per i giornali e le tv sono sempre stato il povero bambino rapito 15 anni fa, ora mi piacerebbe far associare il mio nome a qualcosa di diverso».La storia di Natascha e del suo sequestratore Wolfgang Priklopilun è “pettegolezzo imburrato infornato e mangiato” come canta Carmen Consoli, e presto la Kampusch sarà digerita in qualche reality show, e l’audience è assicurata, visto come è andata a De Megni, pioniere di questa strada oscena.
Mi domando candidamente: perché queste cose affascinano tanto? Forse ci riguardano da vicino? Il primo pensiero cosciente del famigerato uomo della strada potrebbe essere: «No! Ci mancherebbe, siamo liberi!» Per poi fare i dovuti distinguo:« Nessuno ci impone di vivere rinchiusi, di subire violenze, a meno che non ce le andiamo noi a cercare… che so io, come quelle che girano con la minigonna troppo aderente, “provocante”, e “costringono” il povero diavolo a rispondere alla provocazione».(apro qui la prima disgustosa parentesi: secondo Don Benzi le cose stanno proprio così e, se avete voglia, cliccate sul link. Chiudo qui la parentesi). La domanda allora va precisata: perché in particolare piacciono di più queste storiacce strane, in cui la vittima non si ribella, ma anzi collabora? Forse è questa la cosa che ce le fa risuonare, è cosiddetta Sindrome di Stoccolma che ce la rende familiare? La Sindrome di Stoccolma è uno di quei tormentoni da cronaca nero/rosa che periodicamente ci vengono riproposti dai mezzi di informazione: la connivenza tra carnefici e vittime. Francamente so poco di questo fenomeno, se non che ad inaugurare la serie fu una rapina in una banca di Stoccolma, negli anni ’70. Gli ostaggi, liberati dopo giorni di prigionia, chiesero clemenza per i sequestratori, come se si fossero “affezionati” ad essi. Tutto può essere approfondito su Wikipedia, che riporta altri casi celebri, tra cui il più recente appunto è quello della Kampusch.
La domandina conseguente è: la violenza a cui non viene dato un nome, è meno violenta, è più sopportabile? Se ha i modi dolci non è più tale? (apro qui la seconda rivoltante parentesi: secondo…. Luther Blisset - e altri più coraggiosi che si firmano - sì e, se avete coraggio, cliccate sul link. Chiudo qui la parentesi)Certo, la violenza quella seria, delle bombe sui civili, delle decine di migliaia di donne cinesi suicide ogni anno a causa dei matrimoni combinati, quella ci infiamma e ci fa giustamente reagire, nei nostri limiti e possibilità. L’atto è chiaramente identificato e gli viene dato un nome. Ma dietro un atto umano violento c’è sempre un pensiero violento, e quello rimane innominato.Il pensiero violento è più diffuso della violenza evidente, più tollerato. E’ invisibile, non sempre si coglie pienamente. Ci si oppone ai cattivi, quelli che impongono il burqa, i rituali degradanti, le unioni forzate, spesso dimenticando che anche lì c’è un pensiero violento - spesso condiviso dall’abusato - da affrontare prima e piuttosto che una carenza di democrazia o civiltà.
Non si impara certo a scuola a scegliersi un partner: la maggior parte delle persone qui da noi si “combina” i matrimoni da sé. Poi ci si deprime, ma non sempre si trova la forza per separarsi. Se poi si è del tutto ciechi e addormentati, ci si può sposare vivere in perfetta armonia e gioia persino con un potenziale serial killer.La cultura normale certo non aiuta, propone continuamente discorsi schizo-soporiferi, che portano a dire che un carceriere è stato gentile, a pensare che se si sente piacere non c’è violenza psichica.Ho notato che uno strumento eccezionale per indagare quali pensieri si nascondano dietro alla cultura e al pensiero normale sono le sentenze di tribunale.Voglio riportarne un paio e ipotizzare il “pensare” che c’è dietro
La Corte d’Appello di Cagliari ha deciso che se il violentatore è il marito, il danno psicologico è più lieve.
Per la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione se un partner prima acconsente al rapporto sessuale ma poi nel corso del rapporto vi si oppone, e l’altro partner non si ferma, non c’è violenza.
Nel gioco delle parti, se l’uomo diventa bestia da saziare, la donna che – maligna - colse il frutto, si faccia artista di simulazione e avrà salva la vita. Una volta stabilito un rapporto tra due persone, il partner che riconoscesse la violenza dell’altro partner non puo più opporvisi! Ma “ami il suo carnefice”. la violenza sia il prezzo da pagare per la propagazione della specie, come dicono i sacri libri!Vedo quotidianamente che la “Sindrome” è più diffusa di quanto si creda. La condizione di prigionia che dequalifica la vita di molte persone è in qualche modo sopportata – e rafforzata - attraverso il quotidiano. Per sopravvivere si lascia che il rapporto deludente con chi è più violento prevalga sulla propria identità. E magari si ci si affeziona, si diventa complici. Si impara a sfruttare scientificamente quel po’ di consolazione che il piacere fisico offre.“Aiuta” il fatto che la violenza non è manifesta, non è nelle azioni, nelle percosse. Forse un po’ nelle parole, ma spesso sono le parole dolci a fare il “lavoraccio”. Siamo poi grati a chi ci conferma questo pensiero che dà potere assoluto ai violenti. Ci tranquillizza.Sarà per questo che siamo così morbosamente e rovinosamente attratti da Natascha?

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